20/11/2005
(dal mensile di novembre, Michele Caiafa)
- Quel che conta, alla fine, sono le
serpentine di Kakà, le invenzioni di Totti,
gli sfondamenti di Adriano, i virtuosismi di
Ibrahimovic, le parate di Peruzzi. Sono i
lampi di luce e di classe, che fanno del
calcio, il gioco più bello del mondo. Sono i
tunnel, i dribbling, le discese impetuose, i
colpi di testa, le rovesciate, le punizioni a
foglia morta, i colpi di testa in tuffo, a
cinquanta centimetri da terra (come fece il
grande Maradona nella gara al San Paolo contro
la Sampdoria), i cucchiai e i pallonetti, i
colpi di tacco, i fuochi d’artificio che
soltanto i grandi campioni riescono ad offrire
ai tifosi e agli esteti. Ma anche il
collettivo, il pressing a tutto campo, il
sudore e la fatica dei gregari che riescono ad
imbrigliare i fuoriclasse, perché il pallone
merita rispetto e non sempre vince il
migliore. Quelli che parlano in televisione
spiegano, allargando le braccia, che la
“palla è rotonda”. Figuriamoci quante
sorprese in più potrebbero verificarsi se
fosse quadrata.
Ma quel che conta è il gioco. E lo
spettacolo. Ma proprio lo spettacolo ha
rischiato, negli ultimi anni, di rompere il
giocattolo, buttandolo fuori (un paradosso
difficile da digerire) dal campo di gioco. Per
garantire i fuochi d’artificio, molte società
si sono indebitate, qualcuna ai limiti del
collasso. Ci sono state crisi profonde, e
fallimenti. Si sono moltiplicate le carte
bollate, i ricorsi, le sentenze, gli appelli,
le retrocessioni d’ufficio, le promozioni
non conquistate sul campo. E molti tifosi
hanno avuto l’impressione (giusta o
sbagliata, più sbagliata che giusta) che le
classifiche non rispettassero più i valori
espressi sul terreno di gioco.
Anche in quest’ultima estate (ne sa qualcosa
il Napoli) gli avvocati hanno lavorato più
dei centravanti. Alla fine il sistema calcio
ne è uscito vivo: sono stati puniti con
l’esclusione dalla serie A il Torino e il
Genoa, a vantaggio di Ascoli e Treviso. I
granata sono ripartiti dal torneo cadetto con
una nuova società (presieduta da Urbano
Cairo) al posto di quella travolta dai debiti.
Nel caso dei liguri, le sentenze della
giustizia sportiva e ordinaria non solo hanno
fatto sfumare la promozione, conquistata sul
campo, dalla serie B al massimo campionato, ma
hanno sancito l’umiliazione del confino nel
torneo di C1: non c’è stata alcuna
sanatoria per l’illecito sportivo commesso
con il Venezia all’ultima giornata dello
scorso campionato cadetto.
L’Ascoli e il Treviso sono stati ripescati
in serie A; il Vicenza, il Pescara e il
Catanzaro hanno ritrovato in tribunale la B
persa sul campo. Qualcun altro, oltre a Torino
e Genoa, ci ha rimesso le penne: è il caso
del Perugia e della Salernitana, anche loro
costrette a ripartire dalla C1 a causa del
dissesto finanziario delle rispettive società.
Nel bilancio complessivo dell’estate, devono
essere messe in conto le voci e le
recriminazioni (oltre ai ricorsi incrociati)
rimbalzate fra altre squadre. Il Bologna ha
fatto tutto per tirar giù a proprio
vantaggio, la Reggina. Il Napoli ha cercato di
inguaiare, senza riuscirci, sei o sette
squadre diverse pur di non scontare un altro
anno di purgatorio in serie C. I destinatari
di queste “attenzioni” hanno a loro volta
controdenunciato, o hanno minacciato di farlo,
le rivali.
La ragione che condanna il calcio a questa
inesorabile appendice di schermaglie
giudiziarie sembra oscura alla maggior parte
dei tifosi. In realtà, non è tanto
complicato individuarla: molte di queste
paradossali complicazioni si possono far
risalire alla svolta del 1996, quando con un
decreto legge, fu sancita la trasformazione
dei club sportivi da associazioni culturali a
società con fini di lucro. Una riforma resa
necessaria dagli introiti che, soprattutto per
alcuni grandi sport, si erano nel frattempo
notevolmente accresciuti, al punto che alcune
società calcistiche, Lazio, Roma e Juventus,
si sono poco più tardi quotate in borsa.
Il problema nasce però da una sorta di
maturazione incompiuta: se da una parte le
nuove sfide e i nuovi guadagni, hanno spinto
il sistema a chiedere nuove opportunità
giuridiche al legislatore, dall’altra ha
continuato ad aleggiare sul mondo del calcio
la pretesa di conservare uno spirito un po’
romantico, avventuroso, che in termini molto
più prosaici si è tradotto in una richiesta
di paternalistica assistenza rivolta dallo
sport nazionale alla politica e al governo: si
è passati al sistema delle SpA, ma si è
mostrata una certa riluttanza a sottoporsi al
regime giuridico previsto nel diritto civile
per le società per azioni; si è scelto di
mettere le azioni sul mercato, per esempio, e
si è preteso contemporaneamente di non
osservare criteri di assoluta severità nel
controllo dei bilanci. La Federcalcio, dopo il
1996, ha ridotto i poteri investigativi della
COVISOC, la propria commissione interna
istituita per verificare la correttezza della
gestione dei club. Ha trascurato, per almeno
un quinquennio, di richiamare i propri
affiliati a un comportamento meno avventato
nella quadratura dei bilanci, convinta,
evidentemente, che il sistema sarebbe stato
capace di ricondursi da solo su binari più
virtuosi. E invece, pur di tenere un ordine
solo apparente nei propri libri contabili, le
società di calcio hanno continuato ad
abusare, nel periodo tra il 1996 e il 2001, di
pratiche assai discutibili, come quella delle
plusvalenze.
Nell’amministrazione delle società
sportive, questa tecnica è degenerata al
punto da diventare un circolo vizioso: il
meccanismo, infatti, è stato quello di
scambiare calciatori di livello analogo
attribuendo loro un valore economico di gran
lunga superiore a quello di mercato. Il
vantaggio di un’operazione di questo tipo è
rappresentato dalla possibilità di
“spalmare” il costo nei cinque anni
successivi. Nei bilanci figura così
un’entrata pari al valore “ufficiale”
del giocatore, e un’uscita pari ad un quinto
di tale valore.
Molti bilanci hanno finito quindi per essere
non veritieri. Contemporaneamente sono state
iscritte fra le spese anche le ritenute
d’acconto che non venivano versate, con la
puntualità necessaria, all’erario. E’ così
che si sono accumulati i paurosi debiti
fiscali di molti club, e che hanno portato
all’estremo rimedio di una dilazione
ventennale nel caso della Lazio. E’ sempre
in base a un meccanismo elusivo di questo tipo
che si è tralasciato di pagare i contributi
dell’INAIL. Il sistema del calcio pensava di
poter rinviare sine die la resa dei conti.
Nel giugno del 2001 il presidente della Roma
Franco Sensi, rilasciò una dichiarazione di
sapore profetico “Bisogna rivedere gli
ingaggi dei giocatori, che sono amorali e non
adeguati allo spettacolo che offrono – disse
– altrimenti molte squadre faranno il
botto”. Accadde, di lì a un anno, alla
Fiorentina, che fallì. Riprese il cammino
dalla C2, con un nuovo nome, Florentia. Poi,
una serie di provvedimenti successivi le
permisero di saltare la C1 e riottenere il
nome precedente e il viola tradizionale delle
maglie. E anche quelle decisioni, ovviamente,
resero felici i tifosi di Firenze, ma
provocarono un profondo malcontento nelle
tifoserie delle squadre scavalcate.
L’anno orribile fu il 2003, con i ricorsi a
pioggia che rischiarono di bloccare i
campionati di A e di B. Il 19 agosto di
quell’anno, in una situazione definita da
tutti di emergenza, il governo approvò un
decreto legge che servì, almeno, a rendere
meno intricata la matassa dei ricorsi
processuali, stabilendo, per esempio, che
soltanto il TAR del Lazio, e, in seconda
istanza, il Consiglio di Stato, aveva
competenza in materia, ed evitando almeno che
i vari tribunali amministrativi entrassero in
conflitto fra di loro per motivi
campanilistici. Il campionato si svolse con
sufficiente regolarità, anche se partì in
ritardo e ci furono mugugni delle società che
si sentirono danneggiate. L’Unione Europea
contestò alcuni benefici di tipo economico ed
assicurativo concessi alle società di calcio,
definendoli alla stregua di impropri aiuti di
Stato. Ma non si riuscì a intervenire sulla
malattia vera e acclarata del calcio italiano:
la tendenza di tutte le squadre a vivere al di
sopra dei propri mezzi economici.
Il trauma del 2003 ha prodotto comunque
qualche effetto positivo. C’è stata una
inversione di tendenza. Anche se molte società,
piuttosto che rassegnarsi alle nuove regole,
hanno cercato di risolvere i propri problemi
ricorrendo alla via giudiziaria, rimediando
così alle sconfitte subite in campo.
Come se non bastassero tutte le altre beghe,
c’è stata la rivolta dei sindaci di quasi
tutte le città che hanno squadre che giocano
la serie B. Non accettavano l’idea che il
loro campionato si giocasse il sabato, quando
molta gente lavora, e hanno impedito il
regolare svolgimento della prima parte del
campionato cadetto. Alla fine il TAR del Lazio
ha deciso a favore della Lega Calcio, con le
partite di B che si giocano regolarmente il
sabato alle 16:00.
E poi, tanto per concludere, c’è stata la
polemica sui diritti televisivi che, per la
sola fascia dalle 18 alle 20) sono passati
dalla RAI a Mediaset, da Paola Ferrari e
Giorgio Tosatti a Paolo Bonolis (che con ogni
probabilità abbandonerà il programma
“Serie A”) e Monica Vanali.
Che delusione questo calcio malato e rissoso.
Ma poi, se la Nazionale batte la Bielorussia,
con i gol di Toni, in autobus, nei bar e in
ufficio non si parla d’altro “E
quest’anno vuoi vedere che l’Inter ce la
fa? Però quel rigore non c’era! E se ci
fosse la moviola in campo…”. Tranquilli,
non è cambiato nulla, e il nostro “è il
campionato più bello del mondo”. Lo dice
anche Biscardi.
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