3/1/2006
(RENATA SCIELZO) - Nel pomeriggio sarà
ufficializzato il passaggio di Cassano al
Real Madrid.
Si dividono i destini del talento barese e
del capitano giallorosso.
Dopo la calda e infuocata estate il GRANDE
FREDDO. Dopo i botti di fine d’anno e
l’avvio piovigginoso del 2006, l’ ADDIO, per
nulla grande, ma scontato e oramai
inevitabile.
Il momento tanto atteso per molti, a lungo
scongiurato per molti altri è arrivato.
Antonio se n’è andato. In sordina, dalla
porta di servizio, senza salutare nessuno,
nemmeno una marachella, nemmeno una
cassanata.
Parla la villa di Casalpalocco, dove si è
consumato l’ultimo botto, 15000 euro di
fuochi d’artificio, illuminata e ora al
buio, abbandonata alla volta di Ciampino,
dove un aereo privato, messo a disposizione
da Florentino Perez, patron delle merengue,
condurrà in serata Antonio verso un altro
destino, un destino galattico, un destino
che il ragazzo spera e sogna essere tale.
Da separato in casa, all’ombra del Colosseo,
artefice e vittima allo stesso tempo del suo
forzato isolamento, il talento di Bari
vecchia, il guappo Peter Pan di casa nostra,
quello che ha fatto sognare la Roma per più
di una stagione (illuminante quella
2003-2004), che ha diviso gli animi e
spaccato la tifoseria, che ha illuminato in
maglia azzurra i tristi ed ultimi europei
con i suoi lampi di genio, lascia l’Italia
come un emigrante in cerca di fortuna. E di
riscatto.
Destinazione galattica la sua, sognata,
cercata, agognata. Quella che tante volte il
suo papà putativo, Eugenio Fascetti, suo
primo allenatore ai tempi del Bari, gli
aveva consigliato. Quella che il suo
compagno di squadra e suo ex grande amico,
Francesco Totti, sognava da ragazzino,
quella che, chiunque si diletti a tirar
calci ad una sfera, vede come la Mecca del
pallone.
Madrid, REAL MADRID, con i suoi mostri
sacri, nomi altisonanti, talenti e belle
figurine, suon di miliardi, un palmares ed
un blasone da fare invidia a qualunque
multipremiato e scudettato club, anche a
quelli di casa nostra, che tanto hanno
cercato di incrociare sul loro percorso il
ragazzino cresciuto a pane, pallone e
guapperie.
Si era parlato di Juve per lungo tempo, ma
si sa con Big Luciano Moggi non si ha mai
certezza di nulla, poi di Milan e da ultimo
di Inter. Ma l’Italia si è lasciata scappare
il promettente talento, più Lucignolo che
Pinocchio, ha avuto paura di gestirlo, paura
di tollerarlo, paura di controllarlo, paura
di farlo esplodere.
E il guaglioncello dal canto suo nulla ha
fatto per ancorarsi alla sua terra, per
accontentare mamma Giovanna, innamorata di
Roma e paurosa di questo viaggio, un viaggio
che durerà, a quanto pare, fino al 2011 e
che potrebbe essere il trampolino che il
ragazzo da tempo cercava, ma che potrebbe
anche rivelarsi l’ultimo definitivo botto,
per uno che ha bruciato troppo in fretta
troppe tappe, che è stato consacrato prima
della prova del nove, che fino ad ora non ha
saputo gestirsi e farsi gestire: allenatori,
compagni, procuratori, società, un marasma
di persone, tutti a dire, a fare e a
mediare, qualcuno ad approfittare, tutti
prontamente mandati senza troppi fronzoli al
paese di cuccagna.
Carattere hanno detto e scritto in molti.
C’è chi l’ha definito strafottente,
maleducato, guascone, arrivista, cafone,
spaccone, gradasso e via con l’aggettivo di
turno.
Per chi scrive Cassano ha pagato lo scotto
di arrivare troppo in fretta, dove sarebbe
potuto arrivare passo dopo passo, con
qualche allenamento in più, qualche
sregolatezza in meno e il contributo cercato
e desiderato degli altri dieci uomini che
fanno una squadra. Piccolo Narciso dei tempi
nostri, bravo a guardarsi allo specchio e a
compiacersi, non ha compreso che il suo
genio, il suo talento, i suoi colpi di tacco
sarebbero stati difficili da gestire, come
un boomerang gli si sarebbero ritorti
contro. Cosa che si è prontamente
verificata, troppo consapevole del suo
talento, troppo sfacciato a bearsi delle
marachelle compiute, non ha saputo trovare
un compagno d’avventure, o meglio trovatolo,
non ha saputo mantenerlo.
Roma l’aveva accolto alla grande, la società
l’aveva pagato profumatamente e i tifosi
amato da subito nei suoi duetti con il
capitano. Il capitano, il compagno
d’avventure per l’appunto. Sembravano il
gatto e la volpe. Si intendevano a
meraviglia, si cercavano, si aiutavano.
Un’intesa perfetta. Un’intesa che si è
incrinata prima con la partenza del
“generale” Capello, poi quando Totti,
illuminato sulla strada della maturità, ha
capito che non potevano gestire tutto da
soli, che a pallone si gioca in 11. Cosa che
forse il giovane Antonio non ha ancora
capito.
A Roma Antonio lascia un Totti in formato
famiglia, amico fraterno ieri, indifferente
compagno oggi, risentito e, secondo alcuni,
invidioso, ormai votato a guidare la sua
nave Roma e con la testa al mondiale, ultima
spiaggia per dimostrare il suo valore a
detrattori e stampa estera, che di fronte a
lui sembrano ciechi. Abbandona una squadra
in difficoltà che aveva ben altre ambizioni
e si ritrova a metà classifica, perdipiù con
l’intero reparto offensivo in infermeria.
“Saluta” un allenatore, Spalletti, che nulla
ha fatto per trattenerlo. E soprattutto
FUGGE VIA, a mo’ di amante fedifrago, da una
città e da una tifoseria, che l’hanno amato
ed osannato, fino ad odiarlo e a fischiarlo,
deluse, tradite e abbandonate, che con
risentimento e rancore, ma anche tanta
malinconia ricorderanno i suoi goal e le sue
intemperanze, le bandierine del calcio
d’angolo al vento, le corna all’arbitro
Rosetti, gli allenamenti saltati, gli uno a
due con il capitano, i begli assist, e i
colpi di uno che ha fatto scomodare il
grande Diego, che in un’intervista di
qualche tempo fa ebbe a dire (con falsa
modestia ed esagerando): “Ha qualche colpo
che nemmeno io avevo”.
Stamane a Roma raccogliere gli umori della
gente, dopo il tam tam delle radio romane
che davano e danno come sicura al 100% la
partenza, che verrà ufficializzata nel
pomeriggio, non è stato facile, dal
giornalaio, al vecchietto seduto a
sorseggiare un caffè, dal ragazzino in
strada a far baldoria per le festività
natalizie al padre di famiglia, dal manager
appena uscito da un meeting all’impiegato
seduto dietro ad un terminale, opinioni
contrastanti, chi ha inveito, chi ha detto
grazie, chi ha reagito con indifferenza, chi
si è messo a piangere. Qualcuno più degli
altri ci ha commosso, sorseggiando un caffé
più amaro del solito ci ha detto: “Ciao
Anto’, buona fortuna. Ti aspettiamo ai
mondiali”.
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