12/12/2005
(RENATA SCIELZO) - Saluto romano sotto
la curva più rossa di Italia.
Il giocatore biancoceleste "saluta"
provocatoriamente per l'ennesima volta
A rieccolo direbbero a Roma. Con il suo ghigno
e le sue provocazioni. Sfacciato e senza
troppi peli sulla lingua. Dal Quarticciolo a
Loughton, Londra, zona 5, ne ha percorsa di
strada per poi ritornare di corsa, rinunciando
a due terzi dell’ingaggio, nella sua Roma,
per indossare l’unica maglia che ha sempre
amato, quella della Lazio.
E’ l’estate del 2004, la notizia rimbalza
da un giornale all’altro, da una radio
all’altra.
250.000 euro a stagione per sancire il ritorno
in biancoceleste. Caroselli e festeggiamenti a
Formello, dove ci si prepara ad accogliere il
figliuol prodigo.
Dopo anni di militanza nel campionato inglese,
amato ed osannato dai tifosi, punito e tenuto
lontano dai campi di gioco per 11 giornate per
aver spintonato e fatto cadere un arbitro (Paul
Alcock), ed elogiato per il suo fair-play,
dopo aver bloccato la palla con le mani per
aver visto il portiere avversario a terra,
quando avrebbe potuto far goal, Paolo Di Canio
torna, profeta in patria, veste la casacca
della squadra che lo ha cresciuto e che ha
sempre amato, fin da bambino. E fa discutere.
Torna a casa e subito spopola, con i suoi
gesti e le sue dichiarazioni, talvolta
beffarde, talvolta irriverenti, talvolta
provocatorie, spesso pericolose.
E’ la prima dello scorso campionato e già
litiga con Simone Inzaghi per tirare un calcio
di rigore. La spunta, palla a destra e
portiere a sinistra. Goal. E applausi.
Torna nel suo stadio, urla e gioisce con i
suoi tifosi, oltraggia e schernisce gli
avversari. Vince il derby, dopo aver per
un’intera settimana dispiegato la sua
strategia: creare tensione.
Un esempio su tutti? Le provocazioni
all’indirizzo del capitano giallorosso
(“Se gli parlo del medioriente, crede che
sia una zona del campo” Di Canio dixit).
E’ uno che ami o che odi. E’ uno che non
conosce le mezze misure. E’ uno che ha
carisma, bisogna ammetterlo, ma è uno che non
ci piace.
Si parla tanto del buonismo e dell’immaturità
di Totti, della cattiva forma di Del Piero,
delle intemperanze di Cassano, degli amori di
Vieri, della classe di Kaka, ma troppo poco si
parla di questo giocatore.
Sarebbe bene regalargli più spazio e
soprattutto vederlo protagonista di azioni,
punizioni e goal da cineteca.
Sarebbe bene ricordare uno dei suoi goal più
belli, quello realizzato con la maglia del
Napoli contro il Milan nella stagione 1993 -
94 e ricordare che è autore di una
autobiografia.
Sarebbe male invece dimenticare, omettere le
sue intemperanze, i suoi gesti recidivi, che
oltre ad essere pericolosi, incominciano a
sembrare i gesti di chi, sulla strada del
declino, si aggrappa agli ultimi scampoli di
celebrità e protagonismo. Da condannare.
Senza giustificazioni. Non c’è Lotito che
tenga, non c’è massima latina che gli venga
in aiuto.
Del resto non è da Di Canio, non è questo
che ci aspetteremmo da lui, da uno che ha
carattere e che, nonostante la non più
giovane età, potrebbe farsi apprezzare sul
campo, più che sotto la curva, soprattutto se
si tratta di quella avversaria, soprattutto se
si tratta di provocarla.
Il nostro, sempre durante la scorsa stagione,
aveva avuto spazio grazie a quelli del
programma televisivo “Le iene”, che in
vista dello scontro tra Lazio e Livorno, lo
avevano messo a confronto/scontro con la
bandiera della squadra amaranto, Cristiano
Lucarelli, nella ormai celeberrima intervista
doppia. Entrambi, di orientamento politico
diametralmente opposto, avevano avuto l’
occasione di ribadire per l’ennesima volta
le loro simpatie. Ma a Di Canio tutto ciò non
è bastato.
Di Canio ad un anno di distanza torna a
ripetersi, nonostante le pesanti multe
comminategli dalla giustizia sportiva; multe,
che, risulta chiaro, non sono state
sufficienti a chiarirgli il concetto che
osannare il fascismo è apologia di reato (e
lo dice la nostra costituzione) e che
provocare i tifosi avversari non è
atteggiamento da calciatore, ma da facinoroso,
da intemperante, da “irriducibile”. Di
Canio deve decidere da che parte stare, sul
campo, onorando la sua maglia e rispettando
l’avversario e soprattutto i tifosi
avversari o sugli spalti, insieme al nutrito
gruppo di irriducibili della curva nord, ad
osannare il duce, a provocare e ad assumere
atteggiamenti estremamente deprecabili e di
sicuro condannabili.
La partita di ieri era a rischio disordini,
laddove si incontravano due squadre, il
Livorno e la Lazio, le cui tifoserie non sono
per nulla amiche e sono politicamente
schierate e di fazioni diametralmente opposte,
ma Di Canio, quando è uscito dal campo per
sostituire Pandev o a fine partita quando
sotto la curva ha lanciato una maglia nera con
scritte sicuramente poco edificanti ha smesso
per l’ennesima volta l’habitus di
calciatore, e, pur consapevole di ciò che i
suoi gesti potessero comportare, è entrato
nel suo ruolo preferito: il provocatore, il
trascinatore di folle di scalmanati o, ci si
perdoni, sarebbe meglio dire di idioti, idioti
che si distinguono per i loro buu razzisti e
per il loro credo ispirato a violenza e
barbarie.
Sarebbe bene che i calciatori continuassero a
fare i calciatori più che gli opinion leader.
Di Canio nella fattispecie è adorato dai suoi
tifosi, sa di essere un simbolo e un modello e
come tale non può permettersi certi eccessi.
Diventa superfluo il giorno dopo, come ebbe a
fare prontamente dopo il derby dell’anno
scorso, dire “no” ai simboli politici in
campo, dopo aver mostrato ed ostentato
tatuaggi inneggianti il duce, dopo aver
salutato “romanamente” e dopo aver urlato
frasi del tipo: “Onore ai diffidati”.
E queste non sarebbero provocazioni? E questa
non sarebbe strategia della tensione?
Di Canio fuori del campo e lontano dalle
telecamere può dire e fare quello che vuole,
ma quando scende in campo deve deporre il suo
ghigno provocatorio da iena ridens, ricordarsi
che è un calciatore e che deve giocare a
calcio. Solo quello.
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