3/5/2005
(dal mensile n. 6, Michele Caiafa) - Quante possibilità ha l’Italia di organizzare gli Europei del 2012? Per ora gli scommettitori non accettano puntate, visto che la decisione verrà presa tra due anni. Ma un calcio all’immagine dell’Italia e ai suoi stadi l’ha già dato l’UEFA, il governo del pallone continentale, la stessa che dovrà decidere chi organizzerà il torneo. Infatti nella classifica dei 20 impianti a cinque stelle, gli unici che possono ospitare una finale europea, non ci sono stadi italiani. In cima alla lista dei promossi la Spagna, con quattro campi, poi tutti gli altri. Nell’elenco l’unica superpotenza calcistica assente è il paese delle notti magiche del ‘90. Quello che quindici anni fa, per organizzare i Mondiali, investì 1.248 miliardi di lire in curve e tribune, quasi il doppio del previsto. Ora, per gli Europei del 2012, il governo dovrebbe spendere, si stima, quasi un miliardo di euro. Spesso per rifare da capo i vecchi stadi.
Un cammino lungo e costoso. L’ultima finale di Champions league “italiana” fu ospitata a Milano nel 2000. Poi, la bocciatura, a causa delle nuove regole UEFA: i posti devono essere tutti a sedere, con tanto di schienale, e l’area dell’impianto va controllata con telecamere collegate a una centrale operativa. In più per uno spettacolo più confortevole la UEFA pretende attenzione per il tifo d’èlite: almeno 200 posti in tribuna vip, un’ "hospitality area", 500 camere in alberghi a cinque stelle nelle vicinanze. Insomma, lo stadio del futuro sarà sempre più simile a un salotto. Contrariamente a quello che vogliono gli ultrà di casa nostra. A Genova l’esempio più recente: i tifosi si sono opposti ai seggiolini in gradinata. Col rischio di restare fuori dall’Europa calcistica.
Così l’esempio degli ex hooligan inglesi che, nei loro stadi, guardano le partite seduti e tranquilli. Merito delle nuove leggi, che prevedono perfino l’arresto in campo, e la presenza in curva di inflessibili “steward”. Per questo i dirigenti italiani seguono corsi in Gran Bretagna per studiare la nuova frontiera. Partendo dal Chelsea Village (nella foto), massima espressione del calcio al tempo del marketing, un tempio dedicato al culto della capolista della Premier league. I sostenitori del Chelsea, pure a campionato fermo, si immergono in una Disneyland del pallone fatta di negozi, cinema, ristoranti, alberghi e persino un museo. Un mondo virtuale dove l’odore dell’erba e il calcio giocato sono solo accessori. Il sociologo Pino Russo, nel suo libro “L’invasione dell’Ultracalcio. Anatomia di uno sport mutante”, ha sottolineato questo cambiamento. Il pallone nell’ultimo quindicennio si è trasformato radicalmente: la tv a pagamento, il merchandasing, il doping lo hanno stravolto.
E gli impianti colosseo sono diventati inutili, se non addirittura nocivi. Il caso limite è quello del San Nicola di Bari, firmata da uno degli appartenenti al gotha dell’architettura mondiale, l’architetto Renzo Piano: è la struttura meno utilizzata d’Europa (a fronte di una capienza di 58 mila posti, ha in media 3 mila spettatori a partita), il meno adatto alle telecamere, mandate in tilt dalle strisce di luce che attraversano il campo. Ma quando Piano lo costruì l’ultracalcio, quello delle pay tv, doveva ancora scendere in campo. Oggi, dopo l’invasione, bisogna ripensare gli stadi. Magari mantenendone le sembianze, proprio come gli ultracorpi del famoso film di Don Siegel.
Un esempio? Il Delle Alpi di Torino, un altro monumento al gigantismo di Italia '90. Dentro quel gelido circo nascerà la nuova bomboniera della Juventus, con meno spettatori e una visibilità migliore. I bianconeri puntano al modello inglese, dopo aver firmato con il Comune una concessione per 99 anni al prezzo di 25 milioni di euro (cosa che si poteva fare tranquillamente anche nella realtà napoletana, ed invece il Comune di Napoli non lo ha voluto assolutamente fare). Quasi un acquisto, come consiglia l’UEFA, che vorrebbe impianti di proprietà delle società.
Non sempre la trattativa tra squadre ed enti locali è facile (vedi soprattutto il caso Napoli). Lo conferma anche il caso Milano, dove il Comune ha chiesto 150 milioni di euro per vendere San Siro. Milan ed Inter, confortate da uno studio di un’importante società immobiliare, hanno risposto offrendo 44 milioni: il prezzo di un campo nuovo di zecca in cambio di una struttura con ottant’anni di vita sulle architravi. Una disputa che ha fatto emergere due diverse idee di calcio. Come spiega l’assessore allo Sport Aldo Brandirali: “Vogliamo che il pallone rimanga uno spettacolo per famiglie, non per una ristretta elitè. Le due società stanno investendo solo per allestire aree vip”.
Le squadre milanesi non sono d’accordo: “Paghiamo l’affitto più salato d’Europa, 6,5 milioni di euro l’anno, e investiamo molti altri soldi per i lavori di ristrutturazione. Altro che vip”. L’interista Luciano Cucchia, amministratore delegato del consorzio San Siro insieme con il collega milanista Alfonso Cefaliello, aggiunge: “Se non si trova un accordo, saremo obbligati a traslocare. Magari a Sesto San Giovanni o ad Assago”.
Ma discussioni ci sono pure nella capitale, dove la Lazio ha annunciato che intende trasferirsi in periferia, in uno stadio più piccolo. All’Olimpico, di proprietà della Coni servizi, resterebbe solo la Roma. Circondata dalla rinnovata cittadella dello sport, un sogno già del fascismo. Il nuovo corso Old England del pallone non scoraggia Raffaele Pagnozzi, amministratore delegato della Coni servizi: “Con buona pace di tutti, la finale dell’Europeo 2012, se sarà nel nostro Paese, si giocherà all’Olimpico. Che piaccia o no, questo stadio, che ha poco di inglese, è patrimonio dell’Italia calcistica e sportiva”. |