1/10/2005
(dal
mensile di settembre, Michele Caiafa) -
Alla faccia dei cecchini che su di lui
scrivono biografie noir mai autorizzate e dei
nemici che ne parlano come un vecchio arnese
da pensionare. Luciano Moggi, detto Lucky è
uno di quei pochi personaggi di potere che può
concedersi il lusso di non dire quel che
pensa. E cioè che, alla malora i giornali,
Fabio Capello e i suoi proclami, l’ultimo
scudetto conquistato, il sesto da quando Lucky
è alla Juventus, porta (come al solito nei
suoi successi) tutto per intero il suo nome,
la sua faccia e sia chiaro, il suo torbido
genio.
Scudetto moggiano l’ultimo come pochi.
Inventato quando c’era da inventare, ordito
quando si trattava di ordire e taciuto quando
c’era da tacere. Quando Umberto Agnelli sul
letto di morte convoca Antonio Giraudo e detta
in fin di voce il nome di Capello come
successore di Marcello Lippi, Moggi è già al
telefono con Giorgio Tosatti, amico di Don
Fabio, per un rapido sondaggio. C’era
feeling con Umberto, molto meno con Giovanni
Agnelli, che mal sopportava l’ex ferroviere
dai modo grevi e smise di sopportarlo del
tutto il giorno in cui annunciò la cessione
di Bobo Vieri all’Atletico Madrid, dopo
avergli garantito una settimana prima la sua
incedibilità.
Prima dote di Moggi: saper mentire anche a se
stesso. Seconda dote: la flessibilità.
Quattro anni prima lui e Capello si erano
abbaiati contro di tutto, accuse e sospetti di
slealtà sportiva, per questo deferiti alla
commissione disciplinare. Moggi che si
lamentava degli arbitri, l’altro, allora
tecnico romanista che replicava: “Da quale
pulpito! Ci vuole coraggio…”. Eppure, in
meno di 24 ore Capello sbaracca la casa romana
e scappa in direzione Torino, nelle braccia di
Luciano. Il trasloco più veloce della storia,
tutto di notte, perché, come dice l’Amleto
di Jules Laforgue, le spiegazioni ti
ammazzano, soprattutto se dall’altra parte
ad ascoltarti ci sono un migliaio di ultrà
romanisti avvelenati.
Preso Capello, Moggi si vernicia di bronzo e
ritorna nella tana di Villa Pacelli, dove lo
aspettano l’altro suo nemico storico, da
qualche tempo comunque ex nemico, Franco
Sensi, e quello strafottente di Franco Baldini,
uno di cui diffidare, uno che compra
calciatori e cita Molière, per chiudere
quella che lui definisce la trattativa più
faticosa della sua vita, l’acquisto di
Ferreira Emerson. Già intascato Jonathan
Zebina a parametro zero, sfilato praticamente
gratis Fabio Cannavaro al suo ammiratore
Massimo Moratti e preso per due lire anche
Zlatan Ibrahimovic dall’Ajax di Amsterdam.
Nove mesi dopo, Ibrahimovic vale cinque volte
tanto, Capello, Emerson e Cannavaro sono gli
artefici dello scudetto. Ma non finisce qui.
La Juve quest’anno punta a conquistare la
Champions league (vuole rimpinguare la sua
scarna bacheca di sole due coppe con le
orecchie!) ed ecco che con un ennesimo grande
colpo di mercato, arriva un altro campione, il
centrocampista nazionale francese Patrick
Viera dall’Arsenal per la modica cifra di 20
milioni di euro, ma che va a formare con
l’altro mostro Emerson, quella che a ragion
veduta è la più forte coppia di
centrocampisti centrali del mondo, soprattutto
se utilizzati in un centrocampo a 4, che è
poi quello che utilizza il trainer friulano.
Quindi adesso il sogno Champions è molto più
vicino.
Altro capolavoro moggiano è il silenzio
stampa: la Juve è allo sbando, fuori dalla
Champions league (eliminata dal Liverpool, poi
vincitrice della coppa con le orecchie dopo la
balorda finale di Istanbul a scapito del Milan),
perde i pezzi, la squalifica televisiva di
Ibrahimovic, Cannavaro che fa il cazzone con
le siringhe al braccio e lui, Lucianone,
s’inventa il fumus persecucutionis. Moggi
che lamenta il complotto del Palazzo è il
lupo che grida “al lupo”, Crudelia Demon
che si arruola come crocerossina, insomma il
mondo capovolto, l’umorismo al suo apice. La
Triade silente si fa, se possibile, ancora più
lugubre.
Moggi, Giraudo e Roberto Bettega
ricostruiscono attorno alla squadra un’epica
da crociata. Il nemico ovunque, Galliani in
testa. Lo scudetto arriva semiclandestino, una
notizia da San Siro, la festa che non c’è,
blindata, tappi che saltano in sordina, nelle
ville private dei giocatori o al Twiga, il
locale della Versilia dove la Triade dei musi
lunghi incrocia per un fuggevole convivio
quella dei ridanciani, l’amico Flavio
Briatore, il tifoso Paolo Brosio, più l’ex
Marcello Lippi, socio del Twiga, con Daniela
Santanchè, la bella deputata di Alleanza
Nazionale, nel ruolo di Salomè. Poca roba,
poco champagne, qualche passerella, zero
spaccato in confronto a quello che avrebbe
organizzato Lapo Elkann, con uno smile che
ride largo dal Lingotto al Parco Valentino.
Se ne fottono delle feste e degli smile Moggi
e compari, e ora che continuano a vincere, se
ne fottono abbastanza anche di Lapo che,
nell’attesa di scegliere una volta per
sempre se vuole essere il nipote di Agnelli e
diventare il maestro di style o il figlio di
Elkann e invocare lo smile, deve imparare a
capire in fretta la differenza che corre tra
Bambi e Boris Karloff. Tanto più che, mentre
la famiglia Agnelli, Luca di Montezemolo in
testa, resta sullo sfondo a meditare, sono i
soldi di Saadi Gheddafi, figlio del leader
libico, che contano sempre di più nella
cassaforte di piazza Crimea. I soldi della
Tamoil, la benzina sponsor dei Gheddafi (110
milioni in 5 anni), contratto già definito e
le voci fin qui smentite di un rimpasto
societario che vedrebbe il giovine Gheddafi
pronto a rivelare il 60 per cento delle quote
Juve. Garante e fiduciario dell’operazione
proprio Moggi.
Cinico può darsi, ma il vecchio Lucky non ci
sta a passare per antipatico. Come
barzellettiere fa schifo, anche se i suoi
amici sono tenuti alla risata. Ma quando
commenta “Il processo di Biscardi”
stravaccato a tavola, con l’occhio
invariabilmente obliquo, è irresistibile. Di
sicuro, è il meno antipatico dei tre. Così
antipatici che non si frequentano nemmeno tra
loro o almeno lo stretto indispensabile, tra
gli uffici di piazza Crimea e lo stadio.
Stanno insieme perché vincono e perché li
insultano in tutta Italia. Non c’è nulla
che affratella più dell’insulto.
Per il resto Moggi resta il ragazzo acqua e
sapone che viene dalla strada, anzi dai
binari. La licenza di terza media gli basta e
avanza per vendere biglietti alla stazione di
Civitavecchia. Da allora le metafore
ferroviarie lo perseguitano. Nome d’arte da
giovane: Paletta; oggi: Grande manovratore.
Smania di sporcarsi le mani nella fanga della
vita, a cominciare dai vagoni di terza classe
con cui comincia a girare l’Italia per
portare talenti alla corte di Italo Allodi
prima e poi di Giampiero Boniperti: Paolo
Rossi, Claudio Gentile, Franco Causio, Gaetano
Scirea ed altri. Ci sa fare, eccome, Paletta.
Vende vetri come diamanti. Uno da cui
acquistare una macchina usata con la certezza
di averla pagata almeno un paio di volte il
suo valore.
Ma sono le certezze che contano in questo
mondo vago. Ci si fida più di lui alla fine
che di uno come Alessandro Del Piero, che
ringrazia pubblicamente Capello, dialoga con i
passeri e porge l’altra guancia a chi lo
schiaffeggia. L’amicizia è tutto per
Luciano. L’inseparabile Graziano Galletti,
la sua mascotte personale, ex improbabile
ciclista, oggi un soave batuffolo di un
quintale e passa, che lo segue da trent’anni
come un ombra sempre seduto in fondo al
charter in tutte le trasferte, perché senza
di lui la Juve non parte. Nello De Nicola. Ex
capotifoso della Roma che andava a Trigoria
solo per insultarlo, finchè un giorno Luciano
lo prende da parte e gli parla diritto al
cuore. Oggi Nello è responsabile del settore
giovanile della Juve. Amici per la pelle
Franco Ceravolo, capo degli osservatori, con
cui ha condiviso gli anni delle turbolenze
giudiziarie al Torino, e Luciano Perinetti,
amore a prima vista alla Roma, che si porta
dietro o sistema nelle società amiche dal
1976.
Questo è Lucky. Sono gli amici il suo potere.
Dal basso all’alto. Lui non si nega a
nessuno. Parla con tutti. Dall’ultimo
dirigente della Scafatese a Franco Carraro. In
questo è unico. Gli altri vanno a giocare a
Monte-Carlo, lui sgobba come un ergastolano.
Per parlare con uno come Lele Oriali,
dirigente dell’Inter, ci vuole una
raccomandazione ministeriale. Lui ha il
cellulare sempre acceso. Il suo refrain è
“Chiamami domani…”. E tutti lo chiamano
domani e domani ancora, finchè esiste un
domani. Una rete di rapporti che diventa rete
d’informazioni: il potere assoluto. Moggi è
sempre il primo a sapere se un giocatore passa
dal Pergocrema alla Solbiatese. Se un
allenatore sta per saltare e un altro sta per
arrivare. Lo sa anche perché succede spesso
che i suoi consigli vengano ascoltati.
Lo chiama Claudio Lotito, presidente della
Lazio: “Allora prendo Maifredi?”. “No,
per carità, lascia stare, prendi Papadopulo”,
dopo avergli già piazzato come direttore
sportivo Gabriele Martino, ex sottopancia del
suo amico Lillo Foti, adesso passato al
Catanzaro, altra società in orbita Juventus.
Ma Moggi fa anche il mercato al Siena e
quant’altro…Con Carraro (il caro Carraro)
è mutuo soccorso. Con Galliani il patto è di
ferro, anzi d’acciaio. Avversari contro il
resto del mondo, avversari tra loro.
Moggi sa come farsi benvolere dai giornalisti,
il pensierino affettuoso non manca mai,
qualcuno lo colloca in Rai o altrove, le
sponde non gli mancano.
Con gli arbitri l’afflato è lampante. Lo si
deduce dalle statistiche, la Juventus è la
squadra più fallosa del campionato, ma è
quella che subisce meno ammonizioni, meno
espulsioni e meno rigori. Gli arbitri tendono
alla paralisi labiale quando si tratta di
fischiare contro la Juve. Ma Moggi non
c’entra. Del resto Pierluigi Pairetto, per
ben cinque anni designatore arbitrale in
coppia con Paolo Bergamo, è amico di Moggi
dai tempi in cui lui era già un boss al
Torino. Giocavano quasi tutte le sere a
scopone con il giudice Giuseppe Marabotto,
quello del calcio-scommesse, Luciano Nizzola e
Giraudo a turno. Tutti tifosi del Toro.
Ma il migliore amico di Luciano resta suo
figlio, Alessandro. Cuore di papà lo ha
sistemato a sua immagine e somiglianza e ora
fa il procuratore di successo alla “Gea
World”, dove il figlio di Moggi lavora a
fianco del figlio di Lippi e della figlia di
Cesare Geronzi, il plenipotenziario di
Capitalia con infiniti interessi nel mondo del
calcio. Dialoghi surreali. Padre e figlio
Moggi che tubano e si fumano addosso alla
stessa scrivania, uni di fronte all’altro.
“Papà me lo compri Di Vaio?”. Il richiamo
del sangue che si fonde a meraviglia con
quello della pecunia.
Conflitto d’interessi? Concetto troppo
labirintico per un’anima semplice come
quella di Luciano. La Gomorra del calcio non
l’ha inventata lui, l’ha trovata, lui ha
solo applicato i suoi metodi, appresi in buona
parte da quel genio di Italo Allodi, un
gentleman forbito rispetto a Moggi, ma pur
sempre un pescecane. Moggi lo tradì a Napoli
ma poi gli fu vicino nei mesi della malattia,
quando Allodi si credeva onnipotente e si
ritrovò steso a terra con le formiche che gli
camminavano sul braccio inerte.
Un italiano vero, Moggi. Meno decoubertiano di
un rottweiler. Gli piace vincere, non importa
come. Ma gli piace soprattutto piacere. Lucky,
cuore, memoria di ferro, non dimentica. Nel
bene e nel male. Come Al Capone nella scena
della mazza da baseball, ti massacra se oltre
a fargli lo sgarbo sei anche uno che non
conta. “Ho smesso di lavorare dal giorno in
cui ho rilasciato un’intervista contro di
lui” racconta De Sisti. “E’ un uomo
vendicativo, me l’ha fatta pagare” la più
recente accusa di Ermanno Pieroni, ex
presidente dell’Ancona, condannato per
truffa e bancarotta. Di Zeman si dice che sia
finito nei fondali del calcio dopo le accuse
di doping alla Juventus.
Lui, Moggi, non si perde in perifrasi. Nel suo
ufficio campeggia una tela con le immagini di
Paulo Sousa, Gianluca Vialli, Roberto Baggio,
Fabrizio Ravanelli, Bobo Vieri, Didier
Deschamps, tutta via via sbolognati per usura
o eccesso di personalità: “Vuoi finire
anche tu nel quadro?” domanda ai giocatori
che lo molestano. Funziona. Moggi è questo.
Abile o fortunato, esce sempre illeso da
tutto, patteggiando, schivando, si tratti di
calcio scommesse a Roma, camorra, cocaina e
maradonate a Napoli, arbitri, puttane e frodi
fiscali a Torino, doping alla Juventus, dove
non figura nemmeno tra gli indagati.
A 68 anni, l’uomo di Monticiano è un
peccatore di successo, più vicino
all’acquasantiera che all’incarnazione di
Lucifero. Devoto di Padre Pio che, in un certo
senso, era il Moggi della fede, intesa come
mercato delle anime. Il suo addio esemplare?
Chiudere un giorno, vincendo con l’Inter di
Moratti. Un miracolo vero, con l’aiuto del
santo di Pietralcina. Oppure scendere a
latitudini più calde tornando nella città di
Roma oppure ancor di più nella sua amata
Napoli, ove tuttora risiede quando è in
relax.
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