• MEMORIE DI UNA BAMBINA CON LA FEBBRE A 90° •

3/12/2005

(RENATA SCIELZO) - Mi sono sempre chiesta perché mi affascinasse così tanto vedere un pallone di cuoio rotolare su una superficie piana o su un rettangolo verde. Sin da bambina. Eppure non ho mai giocato a calcio. Scambiavo le figurine e giocavo per accaparrarmene il maggior numero possibile, ai danni dei maschietti della classe. Gli album Panini non sono mai riuscita a completarli, puntualmente mi mancava qualche figurina e sempre della mia squadra. Sono sempre stata tifosa, ho sempre litigato con i coetanei e con gli adulti per difendere i miei campioni e mi sono sempre sentita dire: “Ma tu sei femmina cosa ne capirai mai di calcio?”. Forse di tattica e fuorigioco all’epoca non ne sapevo tanto, ma snocciolavo le formazioni del Napoli come poesiole imparate per la recita di Natale. Nacqui tifosa antijuventina, era il Napoli degli anni ’80, degli anni prima che arrivasse Diego, quando la partita con la Juventus era attesa perché era la sfida della stagione e vincere quella partita significava vincere lo scudetto per una squadra come la mia. Poi arrivò Diego e fu l’estasi. Nell’86 avevo 10 anni e fu la festa più bella della mia vita. Da piccolissima i nonni mi portavano a vedere i carri di Piedigrotta e io attendevo quella festa, quel rito collettivo, oggi andato perduto, in maniera spasmodica. Lo scudetto fu meglio della festa di Piedigrotta. Meglio di un qualsiasi carnevale in qualsiasi parte del mondo, anche di quello di Rio, anche se non l’ho mai visto. Ricordo le bandiere, ne avevo tre, di varie dimensioni, la più bella era quella con una gigantografia di Diego e la scritta “Forza Diego”, Maradona era ritratto in nero su una stella gialla, mio padre l’aveva pagata diecimila lire e io la conservavo come un trofeo. A maggio l’appesi finalmente alla finestra e misi in mostra il mio trofeo. Imparai a memoria tutti gli striscioni, esposti nelle parti più disparate della città. Parecchi contro il Milan, parecchi contro la Juventus, ancora li ricordo. Si festeggiò a Posillipo come ai quartieri spagnoli, al Vomero come al centro. Un tripudio. Gli striscioni con le parolacce avevo vergogna a ripeterli, ma erano quelli che di istinto mi piacevano di più e che ancora oggi ricordo. C’erano le parolacce, ma non erano violenti. Era un bel tifo. Del resto in una città dove c’è stato il colera, non può esserci che un bel tifo. Battuta pessima lo so, ma quando cantavano “O colerosi, terremotati” chiedevo a mio nonno “perché se i napoletani hanno avuto la malattia e il terremoto, gliene fanno una colpa?” Mio nonno mi rispondeva: “sono ignoranti, non sono tifosi, non stanno qui per vedere la partita”. Sarà, oggi capisco che per alcuni è una colpa, per molti, purtroppo il peccato originale è nascere napoletani. Monta la rabbia. Adoro l’inventività della mia gente, e la mia terra mi manca. Vivo a neanche troppi chilometri di distanza e mi sento una traditrice, ho tradito la mia terra e la mia squadra, ho messo da parte una fede per sposarne un’altra. Eppure quando sono sul treno che da Velletri, dove attualmente lavoro, mi porta a Roma Termini, penso sempre con un velo di malinconia a quando ero bambina e le partite e i goal di Diego e compagni mi riempivano il cuore. Il calcio era una manna per la mia città, un regalo per tanti, una gioia per molti. Adesso il Napoli milita in serie C, io sono diventata grande o quasi, e ho una fetta di cuore giallorossa, e sto male ogniqualvolta sento dire “napoletano” in senso dispregiativo. Amo Roma, la Roma e sono napoletana, difendo Totti e compagni, rido e gioisco quando vincono, ho il muso quando perdono, ma resto legata alla mia terra e sogno il giorno in cui Napoli e Roma potranno scontrarsi nuovamente, allora sì che sarò combattuta tra un passato di gioia e di bambina e un presente maturo di quasi donna che mi inviterà a fare una scelta, l’ennesima. Ma già so cosa sceglierò, perché gli anni e le memorie di bambina non si rinnegano, e con le lacrime agli occhi ogni tanto penso e sogno a come sarebbe stato bello vedere Francesco contro Diego, l’azzurro contro il giallorosso. Io li ho uniti e anche se i colori sembrano in contrasto tra di loro, ne è venuto fuori il mio personale arcobaleno, un arcobaleno che ogni domenica, nel bene e nel male, mi aiuta a dimenticarmi delle noie quotidiane di adulta e a farmi divertire, sorridere, inveire contro l’arbitro di turno o contro i tifosi avversari. Con moderazione, ironia e qualche lacrima.

 

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