GLI
STIPENDI
DA
NABABBI
E
LO
SPALMADEBITI
Ballarò.
Parola
strana,
a
molti
sconosciuta.
In
realtà
è
il
nome
di
un
mercato
di
Palermo.
In
un
altro
mercato
dallo
stesso
nome,
quello
mediatico
delle
parole,
martedì
20
gennaio
è
stato
messo
sulla
bancarella
televisiva
il
decreto
spalmadebiti
delle
società
di
calcio.
E
i
mercanti
di
parole
hanno
potuto
vendere
la
loro
stizza,
presunta
o
sincera,
contro
i
mali
del
calcio
italiano.
Sono
storie
non
nuove,
di
cui
si
parla
ormai
da
tempo,
ma
purtroppo
sempre
drammaticamente
attuali.
In
molte
società
il
banco
ormai
è
saltato
e
presto
potrebbero
chiudere
i
battenti.
Il
Governo
ha
cercato
di
correre
ai
ripari
con,
appunto,
il
famoso
decreto
spalmadebiti,
che
tanto
clamore
ha
suscitato
prima
a
Bruxelles
e
poi
anche
in
Italia.
Perché?
E'
troppo
severa
la
Commissione
Europea
o
è
troppo
indisciplinato
il
calcio
italiano?
La
domanda
è
pleonastica,
la
risposta
scontata.
La
pratica
(strumentale)
seguita
dalle
società
di
calcio
professionistiche
italiane
negli
anni
recenti,
di
mantenere
in
equilibrio
il
bilancio
realizzando
plusvalenze
sul
patrimonio
calciatori
è
entrata
clamorosamente
in
crisi.
Essendosi
invertita
la
tendenza
dei
prezzi
a
crescere,
il
meccanismo
si
è
interrotto
ed
è
rimasta
la
scomoda
eredità
degli
ammortamenti
(620
milioni
di
euro
per
le
società
di
serie
A
nel
2002,
con
una
crescita
del
26%
rispetto
all’anno
precedente,
secondo
il
Sole-24
Ore).
A
quel
punto
le
società
hanno
cominciato
a
svalutare
il
patrimonio
calciatori,
per
riportarlo
in
linea
con
i
valori
di
mercato
ed
abbattere
così
gli
ammortamenti.
Naturalmente
ciò
ha
dato
luogo
ad
una
minusvalenza
da
iscrivere
nel
conto
economico
a
compensazione
della
plusvalenza
dell’anno
prima.
Le
società,
però,
sono
andate
in
perdita,
a
causa
delle
plusvalenze
esagerate
degli
anni
del
boom
dei
diritti
televisivi.
A
garanzia
dei
terzi,
il
codice
civile
fissa
un
limite
alle
perdite
(il
capitale
sociale
non
può
scendere
sotto
un
minimo)
e
prescrive
che
quando
la
perdita
di
esercizio
è
superiore
a
un
terzo
del
patrimonio
netto
la
società,
calcistica
o
meno,
deve
ricapitalizzare
o
fallire.
E'
proprio
il
caso
delle
società
calcistiche
italiane,
che
hanno
accumulato
perdite
enormi
senza
preoccuparsi
di
non
avere
la
disponibilità
finanziaria
per
poter
poi
ricapitalizzare
con
denaro
fresco.
La
possibilità
di
spalmare
la
minusvalenza
su
dieci
anni,
offerta
dal
Governo
al
calcio
professionistico
italiano
crea,
dunque,
una
palese
distorsione
della
concorrenza
nei
confronti
di
società
che
operano
in
altri
settori
e
delle
società
calcistiche
di
altri
paesi
Ue.
Il
problema
economico
principale
per
le
società
di
calcio
è
quello
degli
stipendi
ai
calciatori,
i
quali
hanno
raggiunto,
negli
ultimi
tempi,
livelli
vertiginosi.
Il
“costo
del
lavoro”,
nel
mondo
del
calcio,
ha
pericolosamente
rotto
l’equilibrio
costi-ricavi:
in
generale,
il
costo
del
possesso
dei
calciatori
supera
nettamente
i
ricavi.
Le
perdite
delle
società
di
calcio,
nel
2001,
sono
state
di
ben
710
milioni
di
euro,
circa
il
61
%
del
fatturato
complessivo
dell’industria
del
pallone.
Soltanto
da
quest’anno
abbiamo
assistito
alle
prime
riduzioni
nelle
cifre
spese
per
gli
acquisti
e
per
gli
stipendi
ai
calciatori,
e
qualche
iniziale
beneficio
dovrebbe
risultare
nei
bilanci
dell’anno
prossimo.
Ma
come
hanno
potuto,
i
presidenti
delle
squadre,
perseguire
una
politica
di
gestione
tanto
dissennata?
La
colpa
è
sicuramente
dell’abbaglio
che
hanno
preso
nel
periodo
del
boom
dei
diritti
televisivi,
a
metà
degli
anni
novanta.
In
pratica,
l’avvento
del
secondo
operatore
di
tv
a
pagamento,
Stream,
ha
dato
il
via
ad
un’accanita
concorrenza,
che
ovviamente
ha
fatto
salire
notevolmente
i
prezzi
dei
diritti
tv.
I
presidenti
si
sono
visti
arrivare
una
vera
manna
dal
cielo.
Tanta
liquidità
praticamente
senza
alcun
investimento
e
senza
rischi.
L’errore,
però,
è
stato
quello
di
sopravvalutare
la
crescita
delle
pay
tv,
cosa
che
è
avvenuta
molto
a
rilento.
In
Italia
sappiamo
bene
che
l’offerta
in
chiaro
è
molto
ricca
ed
inoltre
il
mercato
parallelo
della
pirateria,
molto
sviluppato,
ha
costantemente
corroso
gli
introiti
destinati
agli
operatori.
Il
risultato
è
stato
che
i
prezzi
dei
diritti
televisivi
hanno
raggiunto
livelli
non
più
sostenibili
ed
il
tavolo
è
saltato,
lasciando
i
presidenti
di
società
in
braghe
di
tela.
Con
l’avvento
di
Sky,
operatore
unico
ormai,
le
società
hanno
dovuto
ridimensionare
parecchio
le
loro
pretese,
alcune
addirittura
non
hanno
trovato
un
accordo
ed
hanno
costituito,
come
è
noto,
una
società
alternativa
come
Gioco
Calcio.
Il
fatto
è
che
la
voce
“diritti
televisivi”
è
nel
frattempo
divenuta
la
voce
principale
nei
ricavi
delle
società
calcistiche,
ma
gli
introiti
non
sono
più
quelli
di
prima
mentre
i
costi
sono
rimasti
enormemente
alti.
Da
qui,
la
crisi
del
calcio
italiano,
che
rischia
seriamente
un
clamoroso
fallimento.
L’unica
via
percorribile
per
evitare
un
crack
dell’intero
sistema
calcio
è
quella
di
ridimensionare
la
voce
di
spesa
più
grossa,
ossia
quella
degli
stipendi
ai
calciatori,
magari
ricorrendo
ad
una
forma
di
salary
cup
colletivo,
possibilmente
in
scala
europea,
così
come
è
avvenuto
per
altri
sport
professionistici
in
altri
paesi.
Rino Scialò
24/1/2004