(RENATA SCIELZO)
- 38 anni e una vita
spezzata da una bomba
carta lanciata in pieno
viso in occasione di una
partita di calcio.
Un agente di polizia
negli scontri tra tifosi
durante il derby Catania
– Palermo perde la vita,
un altro versa in
condizioni gravissime e
il numero dei feriti
post guerriglia ammonta
a circa 100 persone.
Notizie da brivido che
non vorremmo leggere e
che, a meno di una
settimana dalla morte di
Ermanno Licursi (n.d.r.
il dirigente della
Sammartinese ucciso nel
tentativo di sedare una
rissa post partita), ci
devono far riflettere.
Riflettere sul calcio,
ma non solo.
E’ la punta di un
iceberg, è il segno
tangibile della deriva
della nostra società.
Negli stadi si sfogano
istinti ferini e
frustrazioni accumulate
in settimana, negli
stadi non si va per
godere di quel
meraviglioso spettacolo
chiamato calcio, negli
stadi ormai si va solo
ed esclusivamente per
esercitare violenza, una
violenza che non è fuori
di noi, ma ci arriva fin
nel midollo. E’ intorno
a noi. E’ dappertutto.
Lungi da noi voler
giustificare i nutriti
manipoli di idioti che
ogni domenica si mettono
in evidenza con
comportamenti
indisciplinati e
teppistici, lungi da noi
voler trovare una
motivazione all’assurdo.
L’assurdo non ha e non
può avere motivazioni.
Se non una sola: una
violenza latente, che si
insinua in ogni aspetto
della nostra
quotidianità, che
esplode e deflagra
rovinando tutto,
vomitandoci addosso lo
schifo che siamo
diventati. Siamo, non
perché colpevoli nella
fattispecie, in
relazione al singolo
episodio, ma perché
ciechi, talvolta
superficiali, di fronte
a ciò che ogni giorno
negli stadi, ma non
solo, nelle strade,
nelle scuole, nei
condomini e perfino
nelle case, si consuma
dinanzi ai nostri
impassibili occhi.
Colpevoli anche noi,
tutti. Colpevoli per non
esserci offesi e
indignati abbastanza,
colpevoli per non aver
alzato troppo la voce.
Colpevoli per aver fatto
sempre troppo poco.
Oggi, stasera, Pancalli
sospende i campionati.
Un weekend senza calcio.
Basterà? Già li vediamo
i sondaggi in tv e sui
media nazionali.
Sospendere il campionato
può servire? O “The show
must go on?” e compagnia
bella.
Interverranno esperti,
uomini di sport, gente
della strada e
facinorosi pentiti, ma
non è questo il punto.
Non sarà uno stupido
sondaggio, una crocetta
messa qui piuttosto che
lì a darci la chiave di
volta del problema o a
farci stare meglio.
Tutt'altro.
La situazione è di
quelle quasi
irreparabili. Non si
tratta più di una
partita di pallone,
dobbiamo interrogarci
sulle cause di tutto
ciò, estirpare il seme
della violenza alla
radice, partire con
programmi di educazione
e di rieducazione in
tutti i luoghi e i
contesti deputati a
farlo: scuola, famiglia,
parrocchia etc. perché
non è possibile che i
nostri figli domani
continuino a leggere di
vite spezzate
arbitrariamente e
insensatamente, non è
possibile che i figli
dei nostri figli siano
figli di una società
ancora più orrenda e
terribile di questa.
E non è possibile che si
continui ad aspettare
chissà quale deus ex
machina che venuto dal
cielo ci ridipinga un
mondo bello e pulito.
Siamo noi, che nel
nostro quotidiano,
dobbiamo lavorare perché
ciò che ci sta intorno
possa cambiare e
soprattutto possa
migliorare. Dobbiamo
credere che ciò sia
possibile, innanzitutto,
ma dobbiamo anche
volerlo. Volerlo,
volerlo fortissimamente,
prendendo posizione,
schierandoci e quando
necessario alzando la
voce, non ottundendo le
menti, non nascondendoci
dietro al “tanto
dobbiamo sopravviverci
qui dentro”.
Il presidente del
consiglio ha commentato:
“Lo sport deve
riflettere”.
TUTTI DOBBIAMO
RIFLETTERE, interrogarci
e ora più che mai AGIRE,
SOLO AGIRE. E non sarà
certo la pausa di
campionato. E’ un
palliativo. Il lavoro
deve partire dalle
fondamenta e a questo
lavoro devono
partecipare tutti;
bisogna cooperare tutti
perché il nostro paese
la smetta una volta per
tutte di assurgere agli
onori della cronaca non
tanto per il suo calcio
malato, quanto per il
suo lasciarsi
sopravvivere sempre e
comunque dinanzi al
marcio e alla violenza.
E’ giunto il momento di
dire basta, di dare il
calcio di inizio a
questa battaglia. Una
battaglia che non sia
solo simbolica. Una
battaglia di fatti e di
parole. Una battaglia
esemplare per
sconfiggere la violenza.