28/4/2005
(dal
mensile n.
6) - Ci sono
dei momenti
nella vita
personale o
nella
società in
genere in
cui tutto
“lievita”.
Tutto ciò
che fa male,
che
disturba,
dopo un
periodo di
lievitazione,
affiora
nella
coscienza. È
un movimento
“catartico”.
Buttiamo
fuori cose
che stavano
nascoste nel
buio della
nostra
coscienza. A
volte lo
scatto può
essere
giustificato
(come una
donna che
viene
violentata a
parole dal
suo marito
per anni e
che un
giorno
piange e
grida come
una pazza,
per buttare
fuori tutta
la sua
rabbia) e a
volte lo
scatto
avviene in
situazioni
incomprensibili
(come la
violenza che
il mondo del
calcio sta
guardando
dal suo
divano
personale
senza fare
quasi
niente).
Questa
settimana
poi, mi sono
ricordata di
Sergio, quel
ragazzo
ucciso per
amore della
sua squadra.
Poi ho
pensato a
Roberto
Carlos, Dida
e Grafite
(del São
Paulo) e non
riesco a
capire
perchè
stanno
facendo del
calcio lo
spettacolo
più
grottesco
che abbia
mai visto.
Sembra un
Tsunami.
Un’onda di
violenza che
sta
crescendo
piano piano
e che può
abbracciare
tutti i
continenti
in una
maniera
bizzarra e
distruttiva,
oppure
essere
bloccata con
misure di
sicurezza
impietose.
Ho scritto
molto tempo
fà un
articolo in
cui dicevo:
“una persona
in mezzo
alla folla
può perdere
la sua
identità per
guadagnarne
una
collettiva,
sommandosi
all’identità
del suo
gruppo.
Molto più
forte e più
grossa nei
confronti
della sua
timidezza
che della
sua
debolezza
individuale.
Quest’identità
lo porta a
fare delle
cose che non
avrebbe mai
pensato di
fare. Crea
forza,
cresce e va
avanti
mischiata
alla follia,
all’euforia
di questo
potere
giovane ed
acerbo che
sa spazzare
facilmente
qualsiasi
difficoltà.
Un’ identità
che scappa
via,
frammentandosi
e tornando
al suo stato
iniziale,
ogni volta
che non
trova più i
suoi partner
e i suoi
compagni...
Così come
l’onda del
mare può
formarsi,
arrivare e
distruggere,
e poi,
finalmente,
frantumarsi
un’altra
volta in
mille
identità
diverse, più
piccole,
meno forti”.
Più che mai
queste
parole sono
vere.
Come
contenere
questo
movimento?
Se le parole
non bastano
più ed il
calcio è
incapace di
sensibilizzare
positivamente
gli occhi di
questi
personaggi
danteschi,
cosa si può
fare? Ho
letto un
articolo di
un
magistrato
brasiliano,
del 2003, in
cui diceva:
“solo la
legge può
contenere
certe
aggressioni
e tanta
violenza
negli
stadi”. E, a
questo
punto, credo
che sia una
verità
assoluta.
Qui in
Brasile è
stato creato
un Statuto
in Difesa
dei tifosi.
Per
proteggere
tutte le
persone e le
famiglie che
amano il
calcio e che
vogliono
partecipare
ogni
domenica ad
uno
spettacolo
bello e
sano. Tra
tante
misure,
queste sono
le tre che
mi hanno
colpito di
più: 1- La
separazione
dello stadio
in due, con
una fascia
di sicurezza
(spazio
senza nessun
tifoso) per
dividere gli
Ultras. Una
segregazione
di identità
assolutamente
necessaria.
Questa
divisione
accade per
fino nelle
vicinanze
dello
stadio, nel
parcheggio e
nei mezzi
pubblici.
2- Controllo
rigoroso del
flusso di
entrata ed
uscita delle
persone
nello
stadio. Non
si entra con
bottiglie,
oggetti
taglienti o
quant’altro
possa essere
pericoloso
per le altre
persone.
Sono stati
messi dei
monitor in
tutto lo
stadio, per
l’osservazione
elettronica
continua
durante
tutta la
partita.
3- È stata
creata una
“mini-questura”,
con ampia
autonomia
legislativa,
caso mai sia
importante
punire
criminalmente
i
responsabili
per
un’aggressione
dentro o
fuori lo
stadio. La
presenza
della
polizia è
proporzionale
all’afflusso
di massa
della gente,
ovviamente
variabile a
seconda
dell’importanza
della
partita.
Quindi mi
viene
normale
credere che
se nessuno
stabilisce
una linea
severa, sarà
impossibile
recuperare
la normalità
di questo
calcio. Qui
siamo
preoccupati.
Dicono che
il prossimo
mondiale in
Germania
sarà
difficile.
Non per
mancanza di
qualità nel
calcio, ma
per mancanza
di rispetto
e ordine. Il
razzismo
cresce
paurosamente
lì in
Europa.
Nella Spagna
un nero è
bravo
abbastanza
se gioca
nella sua
squadra,
altrimenti
passa per
una
“scimmia”.
Non riesco a
capire e non
posso
credere che
nel 2005
delle
persone
facciano
ancora
differenze
tra i colori
della
pelle...
Questa
settimana un
argentino,
durante una
partita qui
in Brasile,
ha offeso
profondamente
Grafite
(calciatore
del São
Paulo).
Desabato
(l’argentino)
aveva già
provocato
una
situazione
simile nella
partita di
andata in
Argentina, e
Grafite,
eroicamente,
non rispose,
decidendo
poi la
partita in
campo con un
goals. Qui
in Brasile,
nella nostra
casa, quest’argentino
ha
apostrofato
con parole
offensive
non solo
Grafite,
“nero dalle
gambe
magiche”, ma
tutta la
nostra
“bianco-nera-mulatta-gialla-rossa”
nazione. Il
questore a
lavoro nel
piccolo
tribunale
dello stadio
ha atteso la
fine della
partita per
portare
Desabato in
galera. Lui
se ne è
lamentato,
senza
chiedere
scusa,
dicendo che
il Brasile è
troppo
rigido nella
sua legge.
Conclusione:
per la pietà
del
magistrato,
Desabato è
rimasto solo
3 giorni in
galera.
Adesso torna
al suo paese
e risponderà
ad un
processo di
razzismo
contro
Grafite e la
nazione
brasiliana.
Un brutto
incidente,
ma sono
sicura che
qui in
Brasile,
nessun altro
straniero
avrà voglia
di provocare
confusione.
In pratica
ci siamo
recati dalla
legge e
abbiamo
risposto
senza
violenza
alla
violenza. So
che
atteggiamenti
discriminatori
come questi,
oppure
atteggiamenti
violenti
come quelli
che ormai
sono stati
visti anche
lì in
Italia,
partono da
uno o due
individui
fuori con
“la capa”
che fanno
danni, in
tutti i
sensi. Ma
queste
persone,
devono
essere
responsabilizzate
immediatamente,
e secondo
me, non
sarebbe
nemmeno male
lasciarli
fuori dallo
stupendo
spettacolo
del calcio,
bloccando la
loro entrata
negli stadi,
per sempre.
Dott.ssa
Patricia de
Oliveira
Musicoterapeuta,
Psicologa,
Counseling
dello Sport |